giovedì 13 dicembre 2007

Un' esistenza triste

Uno degli aforismi più famosi di Schopenhauer ricorda che la nostra esistenza è irrimediabilmente triste. Noi siamo un pendolo che oscilla tra la noia e il dolore. Oggi potremmo attualizzare il pensiero dell'autore e, applicandolo alla blogosfera, scrivere più o meno così: noi blogger sappiamo scrivere o post tristi o post noiosi, altro non c'è. Basta farsi un giro in alcune community per capire quanta tristezza caratterizza i post più apprezzati e quanta noia c'è in altri post. Se si parla di felicità lo si fa in chiave esortatrice, evocandola, ed essa appare effimera in qualche riga in una giornata particolarmente buona per chi scrive. La nostra è una vita disgraziata. Bisognerebbe forse pensare ciò che sostiene Mario Guarna, presidente dell'associazione confilosofare, ossia essere consapevoli della finitudine della nostra esistenza ed essere in grado di assumere tale consapevolezza come guida del nostro esistere ricercando ciò che in esco vi è di buono. Una sorta di cura del sé consapevole alla Montaigne. Risultato? Sei tendenzialmente sfigato ma siine consapvole per non piangerti addosso inutilmente e cerca fra le pagine della sfortuna qualche momento di gioia perché a cercar bene esso c'è . E allora buona caccia al tesoro!

domenica 9 dicembre 2007

Il sublime, l'illusione e l'arte

Secondo l'interpretazione di Diego Fusaro per Nietzsche il sublime artistico nel senso kantiano è soggiogamento artistico dell'atroce e si lega al ridicolo che è scaricarsi artistico del disgusto (cioè io sublimo il disgusto e lo faccio divenire arte. Ciò che trovo grottesco nel reale, lo trasformo in espressione artistica e nello stesso tempo poetica e ridicola. Un esempio sublime, parafrasando, di unione di grottesco, ridicolo e atroce si trova ne "La vita è bella" di Roberto Benigni. Il tema della favola là si intreccia con la tragedia e con il gioco che diventa realtà solo alla fine del film, anche se reale e favola sono mischiati fin dall'inizio della narrazione.
Solo la favola intesa come arte per Nietzsche permette di rappresentare il lato tragico, dionisiaco e quindi allegro e orribile della vita.
L'attore può' essere inteso come uomo dionisiaco che cerca il sublime e cerca il riso. Non cerca però necessariamente la verità ma il suo lavoro è un misto fra verità e bellezza (voglio che sia bello e voglio far ridere). Quindi egli cerca la verisimiglianza come diceva Aristotele. Rimane quindi legato a quel concetto di verità come illusione nell'arte proposto proprio nel lavoro di Nietzsche.

domenica 2 dicembre 2007

L'essenza dell'invidia

La religione cattolica pone l'invidia fra i sette peccati capitali, ed esso è forse il più antipatico di tutti. Se proviamo un po' di compassione verso i pigri, quando pigri non siamo, verso i lussuriosi, è un peccato latente in ogni essere umano, verso i golosi, a chi non piace la cioccolata o il gelato, per l'invidia non proviamo pietà perché tra i peccati capitali è quello che coinvolge di più l'altro in quanto oggetto dell'invida è sempre un'altra persona migliore di quella che invidia. La persona invidiata, spesso ignara di questo sentimento nei propri confronti, è amica o benevola verso l'invidioso, gli ha dato consigli, gli ha offerto la propria amicizia, ma l'invidioso che è anche subdolo si finge amico per carpire segreti e debolezze e sfruttarle poi per sferrare un attacco di vendetta che si può protrarre nel tempo anche molto lontano rispetto magari a un torto subito o che si pensa (è più vera la seconda ipotesi) di aver subito. L'invidioso, essendo un essere inferiore, è cattivo, della cattiveria propria dei vili, non della cattiveria intelligente dei folli che fanno danni totali ma sempre con un disegno razionale degno di lode. No, è una cattiveria stupida, voluta solo per ferire che però se viene scoperta rende l'invidioso oltre che vile anche disprezzabile agli occhi dei più che lo denoteranno proprio di quelle accezioni che egli vuole evitare e lo renderanno ancora più meschino esaltando l'invidiato. Ecco che l'invidioso ottiene qualche volta che le sue cattiverie diventino un boomerang. Il consiglio che diamo all'invidioso è : non invidiare e se proprio non ci riesci , cerca di ferire l'altro con maggiore intelligenza in modo da non farti scoprire per quel che sei ossia un mero vigliacco e ipocrita.
Il gesuita Roberto Bellarmino definisce l'invida efficacemente così: "Un peccato per il quale l'uomo ha dispiacere del bene d'altri, perché gli pare che diminuisca la grandezza propria.
Ma, scrivo io: esiste tale grandezza? E' in grado l'invidioso di valutare obiettivamente? Di rapportarsi degnamente all'altro? Desidera essere riconosciuto dall'altro per ciò che veramente è?

mercoledì 28 novembre 2007

Il genio

Regolarizza l’irregolare. Fa ciò perché sa cogliere l’irregolare nelle regole, lo sa estrapolare e poi normalizzare. Vede oltre l’uomo comune e ne coglie le naturali irregolarità che per lui invece sono regole, normali esibizioni dell’essere. Arriva dove il comune non aspira e intrappola ciò che è inusuale fino a renderlo qualcosa di comune. Volete degli esempi? Leonardo inventò il primo equipaggiamento da sub che sembrava ai più solo uno scafandro. Coco Chanel usò il jersey per gli abiti quando ai più sembrava un tessuto adatto al massimo per la biancheria. Ne volete altri? Pensateci, vi verranno facili.

giovedì 22 novembre 2007

La democrazia è omologazione?

Siamo tutti Uguali! principio cardine della Democrazia. Bisogna però aggiungere tutti uguali nelle nostre libertà. Uguali non basta, bisogna anche essere liberi. La democrazia senza la libertà è omologazione, sfocia in forme negative di gestione dell'eguale. Vi faccio due esempi: la rivoluzione francese e i ghetti ebrei della seconda guerra mondiale. Durante la rivoluzione francese il principio dell'uguaglianza è applicato nella politica di Robespierre che però sfocia nel terrore: siamo tutti uguali, se non rispetti tale uguaglianza, se non ti omologhi, ti aspetta la ghigliottina. I non uguali, i dissidenti venivano fisicamente eliminati. Nel ghetto si diceva: si è tutti uguali di fronte al nuovo nemico nazista. Intellettuali e manuali, sacerdoti e laici, tutti uguali, tutti umili, tutti umiliati e omologati, ridotti a numeri e figure con la stella gialla, senza nome. La libertà assoluta è un'utopia ed è impossibile perché si limita scontrandosi con quella altrui, ma anche l'uguaglianza assoluta è altrettanto privativa: toglie un diritto alla persona: l'affermazione del nella sua semplice espressione.

domenica 18 novembre 2007

Esiste ancora l'a-priori?

L'a-priori trova il suo fondamento in Cartesio che con il suo cogito ha posto le basi per l'autonomia gnoseologica della ragione. Può la ragione da sola arrivare a un qualche conoscenza che sia chiara e distinta? Sì, risponde Cartesio: il cogito ergo sum.
Sviluppato nelle sue caratteristiche formali l'a priori trova spazio nella filosofia kantiana che ne fa la base della conoscenza che ha per forma appunto le forme dello spazio e del tempo a priori (cioè che sono universali e necessarie) e le categorie che Kant chiama concetti puri a priori e come contenuto la materia (l'esperienza).
Hegel ha assolutizzato l'a-priori sostenendo che la ragione è in grado di comprendere ogni realtà e con il concetto dell'assoluto di conoscere appunto l'assoluto nella sua purezza almeno nella logica. (ha bisogno poi della storia per vederlo realizzato e quindi conosciuto appieno).
Nietzsche distrugge completamente l' a-priori; l'aveva già affossato in parte Schopenhauer dicendo che le conoscenze basate sull'a-priori sono solo un mondo rappresentato dal soggetto e non la vera realtà che per lui è la cieca volontà irrazionale che agisce come le pare. Per Nietzsche è possibile conoscere qualcosa? Credo che per Nietzsche conoscere sia dare un'interpretazione a ciò che si esperisce a livello teoretico ed esistenziale attraverso un'interpretazione lirica o corporea che viene dal sè (uso un termine tecnico, di cui le idee sono una prospettiva). Lirica vuol dire basata sull'uso poliedrico del linguaggio, sulla metafora, sulla poesia. In Nietzsche non c'è un a-priori, non ci sono canoni prestabiliti che garantiscono una verità più giusta. Nietzsche ha l'esigenza di distruggere e lascia aperto al singolo lo spazio per creare. Da lui in poi nulla sarà più certo e tutto sarà messo in discussione a partire proprio dall'a-priori che sarà diverso da filosofo a filosofo e che forse non esiste più, non è più chiaramente definibile (in senso univoco). La sua filosofia dell'interpretare sarà poi sviluppata dall'ermeneutica che banalmente vuole dire appunto interpretazione.
Per rispondere alla questione in termini contemporanei:
L'a-priori è una convenzione come lo è il o l'es. Bisogna accordarci su cosa ci pare più efficace. Forme logiche o linguistiche che si utilizzano per comprendere l'oggetto.

lunedì 12 novembre 2007

La metafora del gusto

Che Nietzsche fosse un precursore dei tempi odierni si era capito da parecchio ma leggete qua:"E voi dite, amici, che non si ha da discutere sul gusto e sul sapore? Ma tutta la vita è una disputa sul gusto e sul sapore!". Che vorrà dire in questo breve passo il nostro autore? Come se misurassimo la nostra esistenza in base al gusto e al sapore! Al di là della metafora che significa? Che noi respingiamo ciò che troviamo disgustoso e assimilammo ciò che invece troviamo piacevole. In cucina come nella vita noi usiamo tale misura. Rifuggiamo la sofferenza e apprezziamo il piacere. Ma non bisogna fraintendere Nietzsche. Ciò non significa scappare di fronte alle nostre responsabilità a codardamente scappare di fronte alla fatica o al dolore. Ma essere in grado, grazie alla volontà di potenza, di respingere ciò che nuoce. Ma se non si riesce? Mi chiederete. Perché fattori esterni erano imprevedibili? Il dioniso ci ha messo lo zampino e allora la stessa volontà di potenza ci indurrà ad accettare la tragedia. Come dire: mi disgusta ma ci troverò del buono da qualche parte. Cercate uomini.....

lunedì 5 novembre 2007

Non sono come loro!

"Non sono come loro ma posso fare finta." Il rifiuto dell'omologazione diremmo noi oggi. Anche Nietzsche non sopportava l'uomo comune, patetico e compassionevole solo per non sentirsi meno degli altri o anzi perché come gli altri meglio. Accettare il dolore è per i forti, è per chi medita su di e sul mondo e non per chi non è abituato a riflettere su nulla e aspetta il pacchetto confezionato da qualcuno che ha pensato al suo posto, togliendogli la fatica certo, ma anche il godimento della fatica data dalla riflessione autonoma e pura. Il rifiuto di interpretazioni preconfezionate, metafisiche per Nietzsche e freudiane o pseudo freudiane per Cobain e il tentativo puro di leggere se stessi e con se stessi il mondo. Questo è ciò che ci hanno lasciato ed è una grande ricchezza.

domenica 4 novembre 2007

Continua la simbiosi

ora vi svelo l'autore. E' K. Cobain che ha scritto il passo nel post precedente e sue sono queste parole:"..i dotati, coloro che sono ovviamente superiori, hanno non solo il controllo dei propri studi, ma un piccolo dono speciale in più alla nascita, animato dalla passione (questo dono potrebbe essere paragonato alla Volontà di potenza di Nietzsche che spinge a creare e a fornire senso alla vita). Un 'energia innata, totalmente spirituale (ecco, qui c'è una differenza, Nietzsche la rende corporea e non spirituale, per lui è pura energia fisica di cui la mente è solo uno strumento di consapevolezza).... Non fidatevi dei sistematizzatori. Niente può essere valutato secondo una logica totale o scienza. (Il dietromondo della metafisica viene negato anche dall'ignorante ma intelligente Kurt Cobain, Nietzsche lo avrebbe senza dubbio abbracciato). Nessuno è speciale abbastanza da avere risposte a tutto ciò (il vero saggio per Nietzsche o il profeta è colui che accetta l'infinitudine del reale e che ne afferra solo una porzione nell'arte.)".

giovedì 1 novembre 2007

Friedrich Cobain

Accoppiata audace? Per molti apparirà tale ma per me no. La stessa impressione sul mondo e la stessa smania di fare, di creare, di dire e di dare. Ma a volte persino gli stessi pensieri. Proviamo a fare un gioco, scriviamo una frase e poi decidiamo se attribuirla a Cobain o a Nietzsche. Eccola: "Il nichilismo è un'ottima base su cui costruire una fondazione di ideali ma non fateci entrare le termiti." Capire chi dei due è l'autore non è facile almeno ad una prima lettura, perché vi è lo stesso intento: il creare dal nulla. Vi è anche lo stesso uso di metafore zoologiche, spesso liriche e per lo più incomprensibili. Ma continuiamo nell'analisi e vi troviamo altre assonanze: il desiderio smodato di dare al mondo se stessi con tutta la passione che questo comporta. Una differenza: Nietzsche ha sopportato meglio il dolore!

domenica 28 ottobre 2007

Il corpo ha vinto

"il corpo è una grande ragione più grande di ogni ragionevole ragione, di ogni coscienza o io o spirito, ma anche di ogni istinto o sentire o volere.....Questo senso superiore è il corpo: un'unità intuibile forse soltanto in quel che abita il corpo e che è e diviene il corpo...
Ma il risvegliato, il sapiente dice: corpo io sono in tutto e per tutto, e nulla al di fuori di questo; e anima è solo una parola per un qualcosa presso il corpo." (VI I 35) fr. postumo

Cosa è immediatamente evidente da questi frammento? Scompare il tema dell'io come ragione e come anima intesa come soggetto (di cartesiana memoria) e parte essenziale dell'io. La parte essenziale dell'io non è più l'anima per Nietzsche ma è il corpo. Il corpo sente, soffre, vive e la ragione è ridotta a mero strumento del corpo, è un giocattolo, scrive Nietzsche della grande ragione che è il corpo. E' come se la ragione fosse piegata alle esigenze del corpo e le sue azioni fossero guidate da esso. Quando soffri, ragioni in un determinato modo, quando stai bene in un altro. Non è la ragione che controlla il corpo ma il corpo che gestisce i ragionamenti, li guida, li modifica. Il sentire tragico della vita è percepito per primo con il corpo attraverso la musica per esempio, è viscerale e poi viene elaborato dalla ragione.
Ho sentito in questi giorni la biografia di Kurt Cobain dei Nirvana che esprimeva bene questo concetto. La tragicità del vivere, la sofferenza dell’essere qui ed ora e o meglio nel suo caso l’insofferenza di accettare una vita dentro gli schemi sociali era sentita dapprima con il suo corpo ed espressa nella sua musica e solo in seguito filtrata dalla ragione ed espressa per esempio nei testi delle sue canzoni. Uccidere il suo corpo era per lui una via d’uscita a questa forza accecante che il corpo ha di sopraffare con un dolore continuo e lancinante che lui sentiva e così è morto. Il corpo ha vinto.

domenica 21 ottobre 2007

Riemann, la musica e la filosofia

fin dai tempi antichi la musica è stata contemplata all'interno del pensiero filosofico come punto di riflessione e di formazione; si pensi ai pitagorici che usavano la musica come propedeutica alla matematica e alla filosofia in quanto insegna l'armonia che si trova anche nel sistema mondo disegnato dall'uno (numero). Platone, nella Repubblica, garantisce che la musica in quanto note in armonia si avvicina alla matematica e quindi è l'unica arte che deve far parte dell'educazione del futuro governante della polis. Ci sono matematici contemporanei tra cui Riemann che ritengono che la musica o meglio le note musicali con il loro moto ondulatorio disegnino l'andamento ritmico dei numeri primi: l'ipotesi di Riemann (non è riuscito a dimostrarlo) dice che se scoprissimo l'andamento ciclico di riproduzione dei numeri primi, esso sarebbe simile all'andamento ondulatorio che si disegna sul pentagramma. Nietezsche, nella Nascita della Tragedia attribuisce alla musica un posto di privilegio nella gerarchia delle arti perché esprime, attraverso Wagner, al meglio lo spirito del popolo tedesco e il suo senso tragico. Persino autori cristiani hanno trovato nella musica un modo di avvicinarsi alla perfezione. Il canto gregoriano (coro all'unisono dove le singole voci non si devono assolutamente percepire) è un'esaltazione della purezza della musica trasmessa attraverso la voce umana (sono canti a cappella) e dell'armonia del tutto che dovrebbe rappresentare l'infinito; quando ascolti quel canto puoi credere che l'eden esista perché ti pervade di un senso di pace cosmica nel quale tu ti lasci cadere, altro che nirvana: Schopenhauer si sbaglia isolandosi nella sua noluntas.

sabato 13 ottobre 2007

Il cerchio e l'eclissi

La filosofia hegeliana si può' simboleggiare attraverso un cerchio come le antiche filosofie da Parmenide ad Aristotele; infatti si considera Hegel un metafisico e un filosofo che ha costruito un sistema chiuso. La sua storia della filosofia che coincide con la sua filosofia parte dalle origini del pensiero fino ad arrivare alla comprensione piena e consapevole del concetto: l'assoluto. Dopo l'assoluto cosa c'è? Il nulla appunto e quindi la conoscenza finisce ed il sistema è chiuso. In realtà sappiamo che con Hegel non è finito nulla e la filosofia non è morta. Però il resto della filosofia si è costruito distruggendo il sistema hegeliano, è nata dalle sue ceneri. Ora riaprire il cerchio di Hegel è possibile? Si, se non si considera la filosofia come risposta ultima ma solo come risposta ultima di un'epoca ed è questo che si legge in Hegel, quello delle "Lezioni di filosofia della storia" e tale pensiero lascia spazio al futuro e alla sua comprensione. Ma se il cerchio si apre non è più un cerchio semmai si può' parlare di cerchi sovrapposti , non necessariamente più ampi ma uno sopra l'altro come una sorta di eclissi che oscura il sapere precedente ma che poi passa e lascia spazio anche al passato che un altro cerchio riprende.

sabato 6 ottobre 2007

Oggi mi mangio un libro di filosofia

Teresa Schettino nel suo libro "Il corpo in Nietzsche" propone una lettura originale del pensiero dell'autore e da una spiegazione interessante al concetto di volontà di potenza. Sostiene infatti che Nietzsche stravolgendo la tesi che la filosofia sarebbe un'esigenza della ragione la presenta invece come attività dell'istinto, una sorta di bisogno fisiologico incessante alla continua ricerca. La commistione tra ragione e passione non è una nuova nella storia della filosofia basti citare la maraviglia Aristotelica o l'eroico furore Bruniano ma ciò che è veramente nuovo in Nietzsche è la descrizione del bisogno di sapere non come un bisogno razionale ma come un bisogno del corpo a continuare a cercare perché ha fame di conoscere per sopravvivere. Sembra paradossale ma non lo è. Noi spesso si sentiamo insoddisfatti di ciò che sappiamo e siamo spinti alla ricerca di qc di nuovo. Questa insoddisfazione ci infastidisce, ci fa star male, ci spinge a muovere il nostro corpo: i nostri occhi a cercare altrove. Un nuovo libro, un nuovo film, un nuovo viaggio. Quando questo istinto è stato soddisfatto, ci sentiamo meglio e acquietiamo per un po' la nostra sete di sapere. Secondo Nietzsche è come se fossimo dotati di "geni ispiratori" che ci spingono alla costante ricerca perché se non lo facessimo, cadremmo nell'apatia alla fine ci spegneremmo, spegneremmo il nostro desiderio di conoscenza e sarebbe la morte cerebrale, resteremmo arroccati al nostro sapere vecchio e moriremmo come spiriti creativi. La volontà di potenza invece ci induce a continuare a cercare tentando di affermare nuove verità che magari valgono solo per noi ma intanto sono state affermate e quindi hanno soddisfatto il nostro desiderio. Se domani sentirete dire: "ho fame di filosofia", saprete cosa significa.

giovedì 27 settembre 2007

Il "bello" della televisione

Apriamo la televisione, volutamente uso il lessico americano perché è un mondo che viene a noi e cerchiamo qualcosa da guardare che ci piaccia. Gli addetti ai lavori fino a qualche decennio si preoccupavano di fare bella televisione e qualcuno ci crede ancora ma l'imperativo oggi è fare audience per sopravvivere. Quindi se noi siamo alla ricerca di un "bel" programma possiamo anche chiudere il mondo on tv perché i bei programmi, quelli per cui tutti siamo d'accordo nel dire: "oh, mi è davvero piaciuto, me lo sono goduto." non esistono più. Perché allora guardiamo prodotti televisivi che siamo in grado di giudicare mediocri se non trash? Cosa ci spinge a curiosare nella vita degli altri proiettata in video? Non certo il nostro senso estetico, quei programmi non ci piacciono, non li giudichiamo belli o piacevoli. Forse interessanti, coinvolgenti ma non belli. Non ci fermiamo a contemplare, ad assaporare quanto viene prodotto però li guardiamo. Perché restiamo fissi a seguire una storia strappalacrime sapendo che forse è una montatura o l'ultimo omicidio che diventa fenomeno mediatico a discapito delle vittime? Più che il piacere (tutto kantiano) nel guardare abbiamo bisogno freudianamente di proiettare le nostre disgrazie su quelle degli altri. Pensando che qualcuno sta peggio di noi, ci consoliamo: mal comune, mezzo gaudio. Guardando qualcuno che piange ci commuoviamo. Aveva ragion il buon vecchio Aristotele: la catarsi avviene sulle disgrazie altrui perché il peso di esse non ci appartiene, ne possiamo godere privandocene e sapendo che è finzione o che è di altri.

giovedì 20 settembre 2007

Pulp fiction e l'eterno ritorno

Come collegare Pulp Fiction, il film che critica l'America dei fast food e della società random con L'eterno ritorno di Nietzsche? Lo spunto ce lo fornisce il regista stesso partendo dal titolo. Pulp significa: rimescolamento di tempi e di luoghi perché nel film come nella realtà tutto torna e tutto assume un senso solo se guardato in circolo. La vita di un uomo e più in generale il mondo già per gli antichi greci erano significativi se guardati nella loro totalità, nella loro essenza e non certo a pezzi come siamo abituati a fare noi moderni: il corpo, la mente, le sensazioni, le percezioni, le emozioni. Il greco, abituato a definire tutto secondo la forma, ne trovava i connotati essenziali e ne forniva una chiara definizione non perdendosi nei meandri della particolarità. Che la chiave di lettura del mondo contemporaneo sia proprio da trovare nel tema della completezza intesa come circolarità, dove tutto assume un senso se considerato insieme al resto e non singolarmente? Quale è il messaggio che Tarantino ci vuole dare con il suo film? In sintesi potrebbe essere che la storia, la vita, la società propongono dei ricorsi (quindi un ritorno) di tempi e di spazi che si ripercorrono più e più volte: qualcosa che accade in seguito puo' trovare una spiegazione in un fatto avvenuto prima e viceversa. L'eterno ritorno come chiave di lettura del mondo contemporaneo che ha le sue radici nel passato ma che fornisce i germi per spiegare il futuro. Così anche la vita di un uomo: un'esperienza ti segna e ti fa percorrere una strada e una scelta di vita come quella della vendetta o della droga che si vedono nel film ma poi quella stessa esperienza ti fornisce una diversa chiave di lettura che prima non avevi notato (la droga come esperienza di morte nel caso di Mia e la vendetta come apertura al perdono nel caso del sicario, l'attore S.L. Jackson); ancora Nietzsche ci aiuta a comprendere quando sottolinea che l'uomo ha infinite possibilità di scelta che in fondo sono solo infinite interpretazioni, fornitura di senso a ciò che si ha dinnanzi.

giovedì 6 settembre 2007

Kant, Dio e la marmellata

Kant non concepiva l'esistenza di Dio seppur ne dava una giustificazione etica, per lui era un semplice postulato, qualcosa di posto come vero senza essere dimostrato. Infatti provò che l'esistenza di Dio a livello teoretico ossia partendo dal suo concetto e analizzandolo non puo' essere dimostrata e nessuna delle prove, che nella storia della filosofia sono divenute famose, lo convincevano. Dio era come la marmellata che fuoriesce dal barattolo in cui si cerca di incastrarla, il barattolo non è mai troppo capiente per contenere tutta quella marmellata. Immaginatevi Omer Simpson, sommerso di marmellata, che la inghiotte a più non posso, goloso com'è, ma a un certo punto pure a lui vien la nausea perchè la marmellata è decisamente troppa. Ecco secondo Kant per l'uomo Dio è troppo. Un concetto omnicomprensivo non puo' essere racchiuso in qualcosa di finito come un barattolo di marmellata. La nostra mente è il barattolo, Dio è la straripante sostanza. Possiamo provarci in mille modi con il cucchiaio (categoria della quantità); ma come definire Dio? Troppo sostanzioso? No infinito quantitativamente e perciò incommensurabile. Proviamo con il piacere. Mangiamo marmellata perchè ne siamo ghiotti come Omer ma poi la vomitiamo per eccesso di inghiottimento (la categoria della qualità); Dio è così buono che non finiresti mai di assaggiarlo ma proprio perchè non riesci a smettere prima o poi ti senti male. Il nostro misero essere usa categorie che costruiscono giudizi su Dio: Dio è buono, Dio è infinito, che non possono essere adattate a un ente trascendente, vanno bene solo per il quanto e il quale definiti, limitati, provati attraverso l'esperienza. Ma possiamo noi mangiare una marmellata infinita o chiuderla in un barattolo? Per quanto ci proviamo , ciò è impossibile, non faremo mai una tale esperienza.

venerdì 10 agosto 2007

Non tutti si meritano il Prof Bingo!!!

Un insegnante che si dipinge obsoleto, nei suoi racconti (Questa scuola non è un'azienda ed. Pendragon) e anacronistico perchè ama ancora la cultura e il suo lavoro e rifiuta il formalismo e il burocratese della scuola di oggi. Se avesse scritto il libro adesso, avrebbe aggiunto anche il fango gettato sull'istituzione anche dai massmedia ma...probabilmente lo farà in un nuovo romanzo. Bingo è uno che con ironia e sagacia scrive del deperimento dell'istituzione scuola accusando soprattuto la categoria insegnanti. Beh, mi direte voi, che c'è di nuovo, fanno tutti così! Certo ma Bingo li accusa di essersi rammolliti, di non avere più la forza di reagire al marciume che gira loro intorno a partire dalla struttura scuola per finire con la categoria alunni che dire deprimente è dir poco. Bingo li butta giù all'ultimo girone dell'inferno per ignoranza e ignavia e lo fa piacevolemtne facendoti sempre sorridere, quindi è difficile odiarlo che se hai la s-fortuna di essere passato sotto di lui. Ma gli alunni sono tutti così? Deprimenti, ignoranti e vuoti? Rispondete voi e meritatevi il prof Bingo e chi come lui dedica la sua vita a un lavoro che ama e che pensa valga ancora qualcosa.Perchè?Perchè ha la pretesa di donare la capacità di pensare, dono prezioso...

giovedì 5 luglio 2007

Vi presento

questo Blog.
Ho sentito l'esigenza di creare un altro blog.
Gli altri li trovate nei link.
L'idea è offrire un lavoro interattivo per tutti coloro, studenti e non, che pensano che la filosofia non sia solo una materia nozionistica ma sia qualcosa di diverso e insegni soprattutto a vedere la realtà attraverso molteplici prospettive e magari ad esprimere su di essa un qualche giudizio, proporzionato ai propri ragionamenti.
Ci saranno pagine dedicate alla didattica specifica, altre più libere ma sempre inerenti a temi che richiedono argomenti razionali per essere sostenuti.
L'intento è riuscire a far comprendere al lettore che la filosofia non è solo contenuto ma è anche e soprattutto ragionamento su di esso.

mercoledì 4 luglio 2007

Recensione, filosofia della moda

Recensione:
Filosofia della moda, L.F.H. Svendsen
Che sia uno svedese a pubblicare per primo un libro sulla moda non ci deve stupire, ci deve solo fare riflette su quanto il fenomeno della moda abbia influenzato ed influenzi la nostra cultura fino a portarci a dover riflettere su un tema ritenuto tanto frivolo quanto accattivante per tutti, donne e uomini compresi.
L’autore parte da un’analisi storica del tema che evidenzia il fatto di come la moda sia parte integrante non solo del nostro apparire ma anche del nostro essere.
La moda, sostiene l’autore, si è democratizza nel corso del tempo fino a diventare fenomeno sociale di massa nell’epoca contemporanea ed essere un fenomeno ormai globale. Ma dice di più: la moda ci permette di relazionarci agli atri e quindi di comprendere qualcosa di noi e degli altri; la rivelazione del sé parte hegelianamente dal confronto con l’altro. Come dire: Dimmi come ti vesti e potrò scoprire qualcosa di te, del tuo carattere, della tua natura. Perché è un norvegese e non un italiano o un francese a scrivere di moda? Forse l’italiano e il francese sono così permeati dalla cultura della moda, ce l’hanno nel sangue per intenderci, che la considerano parte di sé e non hanno bisogno di rifletterci o forse vi sono così addentro sia per quanto riguarda gli addetti ai lavori sia per quanto riguarda i fruitori che non hanno il giusto distacco per affrontare il tema. Il libro si suddivide in otto capitoli che affrontano il tema della moda da differenti prospettive; quella artistica, quella sociale, quella economica, culturale (“la moda e il nuovo”, “la moda e il linguaggio”), quella più propriamente filosofica che riguarda il rapporto fra la moda e il corpo e fra la moda e l’identità.
Dando un’occhiata al capitolo la” moda e il corpo” (il libro potrebbe essere un insieme di otto sottolibri da leggere anche singolarmente) vi troviamo che già in Epoca Vittoriana il grasso era considerato sinonimo di lascivia, indolenza, rientrava nelle sottocategorie dei peccati capitali. Ma la tesi di fondo che emerge dall’osservatore con l’occhio critico contemporaneo nei confronti del corpo è che esso come scriveva già O. Wilde dovrebbe sostituire l’anima e oggi siamo arrivati a questo punto. La nostra essenza si identifica con il corpo e l’anima è un alcunché di nascosto che non si sa bene né dove sia né che ruolo abbia. Siamo quindi schiavi di un estetismo del nostro corpo che ci rende anche e di conseguenza schiavi della moda e delle mode.

Breve saggio su l'anoressia

Breve saggio su l’anoressia
Oltre il limite
Da tema psicologico a tema ontologico
Introduzione
L’anoressia fino a qualche tempo fa era considerata una malattia dell’area psichica e quindi la disciplina che si occupava di essa era la psicologia. Siamo agli anni ottanta. Da fenomeno psichico essa diviene nel corso degli anni novanta fenomeno sociale con un culmine nell’attenzione negli anni 2000 a causa di un modello imperante nella moda: La ragazza grissino, sponsorizzato da tutti gli stilisti sulle passerelle. In lieve controtendenza negli ultimi tempi rimane un problema personale e sociale, quindi sento la necessità di affrontarlo ontologicamente ossia nel suo essere essenziale.
Ma che cos’è l’anoressia?
Si presenta come un’eccessiva magrezza che è l’elemento primo e il più evidente ma non si riduce ad esso. Ricordo ancora quest’estate al mare una ragazza, che se fosse stata normale sarebbe stata graziosa. Camminava per la spiaggia come uno scheletro ambulante e bamboleggiandosi come se fosse stata bellissima; in realtà era oscena, nel senso di scandalosa per l’eccessiva esiguità della sua presenza: ossa e pelle che si muovono dentro un bikini racchiudente un seno rasato e due anche ossute e delle rotule ambulanti. Impressionante. Eppure dava l’impressione di ritenersi bella. L’ossessione per la bellezza è sicuramente una delle componenti dell’anoressia che in questo breve saggio verranno considerate. Poteva essere un atteggiamento ostentato ma poteva anche rappresentare l’estrema soddisfazione per aver raggiunto, nella psiche deviata, un risultato apprezzabile: esser sufficientemente magre e non provare nemmeno più il desiderio di nutrirsi di alcunché. Anoressia dunque come privazione del grasso, del cibo, del bisogno fisico di mangiare. Tale privazione nasconde però una frustrazione ben più profonda che è il bisogno di considerazione e di affetto. Basta anche semplicemente il primo per indurre qualcuno a divenire anoressico.
Allora l’anoressia è un male psichico che si riversa sul fisico. Si cerca il perfetto, non lo si trova fuori di sé e allora lo si riversa su di sé. L’anoressico è sempre qualcuno che ha manie di perfezione. Vuole il meglio per se e siccome la vita spesso non lo accontenta lo proietta su di sé, perfezionando il proprio corpo, cercando di raggiungere un ideale di perfezione che si traduce nell’esercizio del dimagrimento cronico. La situazione sfugge al controllo e il corpo induce la mente a non nutrirsi perché non ne manifesta più il bisogno e l’anoressico è leggero. Nel momento del confronto con se davanti allo specchio si vede peggiorare esteriormente (troppo magro) ma erra nel pensare che dimagrendo ancora di più la situazione migliori e la bellezza, magari prima posseduta o cercata, all’improvviso appaia. Ecco il desiderio di perfezione frustrato che mantiene l’anoressico in uno stato di dipendenza totale dal proprio corpo dimagrito.
Questo saggio ha lo scopo di trovare le cause, la natura e gli scopi dell’anoressia dal punto di vista della filosofia. Si intrufolerà anche nelle discipline sorelle: psicologia e sociologia ma solo per introdurre il fenomeno e tener conto di quelle componenti che ne arricchiscono il senso e ne spiegano l’origine e gli scopi.
Cristina Finazzi

Mettere in opera la verità

Mettere in opera la verità
E’ il significato primo del testo heideggeriano : “L’origine dell’opera d’arte”
Ecco il valore dell'arte di Heidegger, mentre vediamo un 'opera d'arte (contadina con gli zoccoli di Van Gogh) oppure leggiamo dei versi (m'illumino d'immenso) di Ungaretti. Cosa comprendiamo? Nel primo caso: il mondo contadino, le sue fatiche, i suoi odori, le sue stanzialità; nel secondo il chiarore dell'infinito, il tema della luce come vero e il vero come immensità della natura umana e non. Non è un mettere in opera la verità questo? Quando Chaplin mette in scena i suoi lavori non fa arte? E non mette in opera la verità? Del lavoro in “Tempi moderni” e del “nazismo” con i suoi lati tragicomici quando si descrive Hitler. Questo mettere in opera la verità è il modo più puro in cui l'essere si rivela a noi al di là della sua cosalità (del suo uso, del suo fine, del suo essere creatura di un qualunque artista). Nell'opera d'arte io vedo "l'ente nel suo essere ossia nella sua verità. Distrutti tutti i retaggi metafisici riguardo alla cosa in sè (dopo Kant) e ridotto l'essere a mera cosa (ciò di cui ci si serve) si è perso il vero significato dell'essere ma esso ci viene dato nell'opera d'arte proprio perchè noi ne contempliamo il reale significato semplicemente osservandola o leggendola (a seconda dei tipi di arte che abbiamo di fronte).
Mettere in opera significa "installare e così soffermare un mondo", sono parole di Heidegger e significano fornire un senso al mondo e renderlo presente a tutti. Se anche il senso dato al mondo è inserito in un contesto, quindi in un tempo e spazio, acquista i caratteri dell'universalità datagli dalla sua presenza statica nel mondo, fissata nell'opera d'arte. Un pezzo di vero che diviene vero per sempre e anche se non è per sempre, è stato fissato e quindi vale. Infatti oramai siamo di fronte ad un essere che non puo' più essere eterno o universale (categorie ontologiche che non valgono più dopo N.) ma se io fisso qc in un tempo, comunque lo fisso e anche se è finito perchè dipende da quel tempo, lo fisso per l'eternità ed è l'unico modo in cui l'essere mi si puo' porre dinnazzi. L'opera d'arte (fra cui anche l'opera comica) "fa insorgere un mondo e lo sofferma in una generosa permanenza". Il mondo che mettiamo in opera è un farsi mondo, non un qc di già dato (metafisica o fisica) ma un evento, un porsi ad essere che implica comunque un io o un noi che lo comprendiamo e senza di noi non avrebbe senso. Mondo è ciò che si fa evento di fronte a noi e che noi scegliamo anche solo comprendendolo, è quindi finito tanto quanto noi e dura finchè noi lo facciamo durare ma puo' essere ripreso via via in maniera diversa e diversamente consapevole (il vigore di un'opera classica che resta nel tempo soggetta a varie e storiche interpretazioni).
Il vero è dato dall’opera d’arte. La verità si ad-stanzia cioè si pone ad essere ed è ciò che viene messo in opera, il vero è l’effettuale ossia ciò che è in effetti. Il modo in cui si pone presuppone un noi che cogliamo il vero e un essere che si pone, che si mette in opera. L’essere rivela la sua essenza ponendosi lì di fronte a noi con nessun altro scopo che non rivelarsi a noi. Noi cogliamo una stagliatura dell’essere che è però più vera di qualsiasi altro essere posto (da altri –società –tecnica) o da noi (pregiudizi, idiosincrasia). Qui accade la verità: noi chiediamo qc all’arte ed essa risponde. La risposta e la domanda sono il vero (da qui partirà l’ermeneutica che porrà l’accento sul vero come rappresentazione dell’interpretare e proprio come domanda e risposta.) E ancora una volta arriviamo all’opera d’arte che mostra come è l’essere nel suo essere bello. Il bello (mi piace, mi procura piacere) rivela a me un senso dell’essere ossia proprio la sua bellezza. Il bello è un vero.
Sapere significa un modo del sapere. Sapere per Heidegger significa aver visto. Cosa? lO STANZIARSI DELLA VERITA' ossia il porsi del vero. Il fare dell'artista non è un agire meccanico come quello dell'artigiano o dell'operaio ma un fare per porre in luce il vero e lasciarlo lì "posto" dinnanzi a noi, alla nostra presa di coscienza su di esso. l'opera d'arte, in tutte le sue forme, rivela e nasconde. Questo pensiero non è originario di H.; già pensatori del 700 come Batteaux e Kant avevano chiarito questo. Il pregio di Heidegger è quello di chiarirlo in chiave ontologica ed esistenziale. Nel rapporto con la cosa e la sua verità noi vediamo un rivelarsi dell'essere che non è tutto l'essere e che puo' lasciare lati oscuri che non siamo in grado di vedere e che magari si rivelano ad altri o proprio non si rivelano. Ciò diverrà fondamentale per l'ermeneutica perchè la domanda che noi poniamo a un testo: cosa vuol dire? Per es. non è necessariamente la stessa che si è posta l'autore o quella che si porranno di fronte ad esso fra 100 anni. Nell'incontro c'è sempre la verità; gia Hegel lo aveva mostrato con la dialettica servo-padrone che rivela la libertà vera e quindi reale del servo. Qui l'incontro è fra l'opera d'arte e chi ne gode o creandola e quindi mettendo in opera la verità o fruendone e quindi godendo di una particolare verità ossia quel manifestarsi dell'essere (ente) che noi siamo in grado di cogliere. Quel rivelarsi dell'essere (ente) a noi è la forma (il porre per fermo). Forma assume un nuovo significato (non è più idea assoluta) ma manifestazione parziale dell'essere che si rivela e si nasconde e quindi è l'evento dell'essere. Accade nel rapporto di comprensione che avviene tra noi e la cosa goduta ossia contemplata che per Heidegger è la forma più alta del godere perchè non si consuma l'ente (Hegel torna - il godere del signore non è reale; quello del servo si perchè mette in opera un alcunchè di indipendente appunto).
La verità viene dal niente?
Per Heidegger ogni definizione dell'essere è una negazione dell'essere stesso (ogni volta che ho provato a definire l'essere (storia della metafisica) l'ho fatto divenire altro: (ente) sostanza, Dio, uomo, io, libertà, superuomo), è quindi impossibile dare un significato all'essere nel senso della sua universalità (morte e negazione della metafisica).
Se pongo in opera la verità nell'arte, essa puo' venire dal ni-ente nel senso che nego l'ente (nella sua superficialità e banalità, servibilità, quotidianità) e si rivela a me nei suoi significati infiniti (di cui io colgo solo qc) e quindi si dis-vela e vela nello stesso tempo. Nego allora il niente (banale, cosalità, superficialità; il "si dice"), infatti Heidegger scrive: "le abitudini di fronte alla cosa sono inessenti (non hanno significato, sono contingenti). Nell'opera " gli zoccoli” di Van Gogh non mi interessano perchè servono ma perchè rivelano un vero.
Perchè la poesia rivela al meglio il vero? Perchè usa il linguaggio laddove il linguaggio contruisce l'essere dandogli senso (parliamo e quindi definiamo l'essere). E' perciò il modo migliore di rivelazione perchè i sensi dell'essere rivelati sono per sè (non servono ad altro se non a comprendere la cosa ); vi è un dis-velamento di senso. la parola secondo Heidegger fa si che l'ente insorga e si estenda in quanto ente". Un progetto, come puo’ essere un’opera d’arte, è il dare il via ad "un getto"; in esso l'ente si rivela e si ritrae (da e nasconde diversi significati d'essere). Quindi in sintesi il "dire" progettante è proporre il dicibile ma mettere al mondo anche l'indicibile (l'opera vela e disvela).
Il limite del pensiero di Heidegger in quest’opera puo’ essere notato nella parzialità del ruolo dell’io che funge da spettatore. Egli fruisce di un senso rivelato dall’opera. Sembra che Heidegger non abbia colto appieno il ruolo doppio dell’uditore e fruitore e dell’essere rivelato che lavora in circolo nel rapporto domanda-risposta e abbia lasciato uno spazio più ampio all’essere che si ad-stanzia. Inoltre, pur comprendendo la validità del linguaggio nel rapporto di rivelazione dell’essere, lascia un ampio spazio all’arte come linguaggio puro e che quindi rivela l’essere nel modo più essenziale dimenticando che ogni volta che nella storia l’essere si rivela (anche con quelle categorie metafisiche che lui stesso nega) una parte di essere si è rivelato e noi anche nel linguaggio comune non prescindiamo da quelle stesse categorie metafisiche (io-noi-essere). Tutto ciò verrà ripreso con maggiore chiarezza dall’ermeneutica e dai suoi principali esponenti come Gadamer.