venerdì 11 dicembre 2009

Filo-poesia

Quando si fa didattica il lessico è fondamentale. Chiarisce e spiega. Chiarisce il contenuto e il significato dell'uso del termine e in questo modo lo spiega. Siete abituati ai neologismi. Io, come creazione virtuale, sono un neologismo: modalogia, filosofia della moda. Ho riflettuto in questi anni di lavoro e di creazioni reali e virtuali sull'uso delle parole e dei termini e sulle modalità di espressione della mia filosofia. Sono venuta a pensare che la mia è filo-poesia. Mi è venuto così spontaneamente mentre stavo spiegando le nuove forme di interazione e di formazione che la rete può fornire fra le quali c'è anche questo blog. Essendomi impossessata di questa definizione e usandola, è giusto spiegarla. La filo-poesia è una forma di espressione filosofica antica e nuova. Infatti nella filosofia c'è sempre stata la poesia (il più grande poeta filosofo del passato è Platone, moderno Nietzsche); fra i poeti che spiegano il reale e l'uomo io ci metto Alda Merini e poi Leopardi, due giganti nel chiarire il senso delle cose. Io mi sento vicina a queste forme di espressione e, senza pretendere di eguagliarne la grandezza, mi accontento di coglierne lo spirito e di cercare nel mio piccolo di farlo mio. Mi sono sempre sentita una strana, una che diverge con il pensiero. Scrivere aforismi è già una forma d'arte, perché in un piccolo spazio (una frase) devi condensare un senso pieno, un tutto. Mi riesce e allora uso questa forma espressiva. Scrivere post è comunque una forma espressiva nuova e se volete creativa, anche lì in poco spezio devi spiegare ed essere accattivante. Ma la filo -poesia non è solo questo. E' scrivere in bello stile qualcosa che abbia un motivo e una ragion d'essere e non scrivere per scrivere. Dare un senso pieno alle cose in forma di linguaggio che danza, che dondola. Quando scrivo, io suono. Gli inglesi usano il verbo play per esprimere qualsiasi forma d'arte: cantare, suonare, recitare. Quando io scrivo, volo: mi par di dondolare sulle mie parole che assumono un carattere lirico, un che di dondoleggiante e musicale che al lettore suona piacevole e ogni qua e là ci invento qualcosa: un neologismo, una parola composta, un significato nuovo che un termine vecchio aveva precedentemente assunto. Ed ecco che nasce la filo-poesia. In fondo la moda e lo sport sono due forme ricreative e io vi ho scritto sopra. Anche i temi che prediligo sono artistici e quindi si crea un tutt'uno fra ciò che significa e il significante che suona poetico tanto quanto il contenuto.

sabato 13 giugno 2009

shopaholic

Il termine è diventato famoso grazie agli scritti di Sophie Kinsella e all'omonimo testo "Confessions of a shopaholic". Devo dire che io ho usato lo stesso significato e l'ho racchiuso nel termine " fashion maniaco". Il termine inglese ha una connotazione negativa che il mio termine non ha. La malattia sta a un passo nella mania ma è già ben definita nel termine suffisso -holic- che deriva da alcoholic e significa letteralmente drogato di shopping. Rappresenta il desiderio compulsivo di possedere un oggetto, pagandolo dopo essere entrati in un negozio o averlo visto in una vetrina. La componente visiva reale è importante. Non si ha la stessa soddisfazione comprando on line perché, come sempre e come molti filosofi sostengono, il desiderio passa dall'occhio e dal tatto che vengono soddisfatti mediante la visione dell'oggetto del desiderio, in vetrina, nel negozio, sulla bancarella del mercato. On line c'è la soddisfazione del visivo ma manca la soddisfazione degli altri sensi, che per l'uomo contemporaneo ancora contano: l'odore e il tatto. Il profumo del nuovo, il profumo del negozio, il profumo della commessa, il profumo del denaro usato per pagare sono tutte componenti dell'eccitazione suscitata nello shoppinngmaniaco o shopaholico che affiorano nel momento dell'acquisto. Come ogni desiderio appagato, l'oggetto nella busta perde tutto il suo valore, e, una volta acquistato, viene spesso dimenticato nell'armadio. L'alcoolizzato di shopping non gode nell'indossare o usare ciò che acquista, gode solo nel comprare. E' tutto il rito dell'acquisto che lo eccita: dal pensiero alla realizzazione dello stesso. Pensare di comprare qualcosa a casa, salire in auto per andare a prenderlo, entrare nel tal negozio, parlare con il negoziante e pagare, ecco il momento più alto di soddisfazione del desiderio: l'oggetto sta per essere mio. Quanto è già mio, non mi interessa più. La mia mente è proiettata altrove, magari a godersi il lungo lago dove si affaccia il negozio. Dalla shoppingmania si puo' guarire, se si elimina il desiderio dell'atto dell'acquisto e si focalizza l'attenzione sull'inutilità del gesto. Esso porta a un godimento effimero che può essere dato anche da altro: la visione del lago menzionato sopra. Annullare il desiderio è impossibile, modificarne l'oggetto è una probabilità.

domenica 1 febbraio 2009

Motivazione del sè

Insegnanti, sempre più spesso nell'occhio del ciclone. Secondo l'opinione pubblica non lavorano, si ammalano, si demotivano. Non sono professionisti. Ma qualcuno si è mai chiesto se loro, i protagonisti di tanta attenzione da parte dei media siano motivati? Siano soddisfatti? Non importa a nessuno, ecco perché non se lo chiedono. Ma a me si, a me importa e me lo chiedo tutti i giorni: io sono motivata? La domanda corretta e pertinente dovrebbe essere: da cosa sono motivata nell'esercizio di cotale professione? Dai miei utenti? E chi sono? Gli alunni o i genitori? O la società tutta? Se sono gli alunni, dovrebbero motivarmi con l'attenzione e lo studio: io do e ricevo in cambio una risposta. Ma tale risposta è sempre meno brillante e sempre meno elaborata. I ragazzi sono figli del fast learning: imparo tutto in fretta e dimentico tutto altrettanto in fretta. La meditazione, frutto dell'impegno quotidiano, è una fatica troppo pesante per essere da loro sostenuta costantemente salvo rare eccezioni. I miei utenti sono i genitori? Lamentele sopprimono l'insegnante più volentoroso e lo distruggono dopo l'ora del colloquio o ricevimento genitori. Quanti genitori hanno motivato l'insegnante dei loro figli? lo hanno spronato a dare di più? Spesso sento mamme che infangano il tal insegnante solo perché ha osato dare un voto negativo al figlio. Non vanno a fondo della questione, giudicano a prescindere. Che mi resta? Lo stato: il mio datore di lavoro? Sono 12 anni che insegno, sono ancora precaria, sono sempre meno pagata in proporzione al caro vita e sono sempre meno considerata e troppo considerata, negativamente! Non mi posso nemmeno ammalare perché secondo Brunetta dovrei andare dal medico dalle 13.00 alle 14.00: l'unica ora d'aria che mi è concessa in caso di malattia. Che mi resta? Mi resto io, con la mia volontà e la mia intelligenza, io che cerco di trovare ancora un senso in questo lavoro che è quasi deplorevole. Io che trovo in me i motivi dell'insegnamento: sono un'insegnante, insegno, cosa? dipende: oggi a stare al mondo, domani Heidegger, dopodomani perché preferire questo o quello, insegnare vuol dire fornire un motivo ad un ragazzo per venire a scuola e questo motivo lo devo trovare in me sennò non arriva nemmeno a lui. In questa dissertazione di filosofico c'è solo l'habitus: la virtù dell'insegnante è svolgere al meglio il proprio lavoro e per farlo deve essere motivata. Credo di aver trovato la soluzione