giovedì 5 luglio 2007

Vi presento

questo Blog.
Ho sentito l'esigenza di creare un altro blog.
Gli altri li trovate nei link.
L'idea è offrire un lavoro interattivo per tutti coloro, studenti e non, che pensano che la filosofia non sia solo una materia nozionistica ma sia qualcosa di diverso e insegni soprattutto a vedere la realtà attraverso molteplici prospettive e magari ad esprimere su di essa un qualche giudizio, proporzionato ai propri ragionamenti.
Ci saranno pagine dedicate alla didattica specifica, altre più libere ma sempre inerenti a temi che richiedono argomenti razionali per essere sostenuti.
L'intento è riuscire a far comprendere al lettore che la filosofia non è solo contenuto ma è anche e soprattutto ragionamento su di esso.

mercoledì 4 luglio 2007

Recensione, filosofia della moda

Recensione:
Filosofia della moda, L.F.H. Svendsen
Che sia uno svedese a pubblicare per primo un libro sulla moda non ci deve stupire, ci deve solo fare riflette su quanto il fenomeno della moda abbia influenzato ed influenzi la nostra cultura fino a portarci a dover riflettere su un tema ritenuto tanto frivolo quanto accattivante per tutti, donne e uomini compresi.
L’autore parte da un’analisi storica del tema che evidenzia il fatto di come la moda sia parte integrante non solo del nostro apparire ma anche del nostro essere.
La moda, sostiene l’autore, si è democratizza nel corso del tempo fino a diventare fenomeno sociale di massa nell’epoca contemporanea ed essere un fenomeno ormai globale. Ma dice di più: la moda ci permette di relazionarci agli atri e quindi di comprendere qualcosa di noi e degli altri; la rivelazione del sé parte hegelianamente dal confronto con l’altro. Come dire: Dimmi come ti vesti e potrò scoprire qualcosa di te, del tuo carattere, della tua natura. Perché è un norvegese e non un italiano o un francese a scrivere di moda? Forse l’italiano e il francese sono così permeati dalla cultura della moda, ce l’hanno nel sangue per intenderci, che la considerano parte di sé e non hanno bisogno di rifletterci o forse vi sono così addentro sia per quanto riguarda gli addetti ai lavori sia per quanto riguarda i fruitori che non hanno il giusto distacco per affrontare il tema. Il libro si suddivide in otto capitoli che affrontano il tema della moda da differenti prospettive; quella artistica, quella sociale, quella economica, culturale (“la moda e il nuovo”, “la moda e il linguaggio”), quella più propriamente filosofica che riguarda il rapporto fra la moda e il corpo e fra la moda e l’identità.
Dando un’occhiata al capitolo la” moda e il corpo” (il libro potrebbe essere un insieme di otto sottolibri da leggere anche singolarmente) vi troviamo che già in Epoca Vittoriana il grasso era considerato sinonimo di lascivia, indolenza, rientrava nelle sottocategorie dei peccati capitali. Ma la tesi di fondo che emerge dall’osservatore con l’occhio critico contemporaneo nei confronti del corpo è che esso come scriveva già O. Wilde dovrebbe sostituire l’anima e oggi siamo arrivati a questo punto. La nostra essenza si identifica con il corpo e l’anima è un alcunché di nascosto che non si sa bene né dove sia né che ruolo abbia. Siamo quindi schiavi di un estetismo del nostro corpo che ci rende anche e di conseguenza schiavi della moda e delle mode.

Breve saggio su l'anoressia

Breve saggio su l’anoressia
Oltre il limite
Da tema psicologico a tema ontologico
Introduzione
L’anoressia fino a qualche tempo fa era considerata una malattia dell’area psichica e quindi la disciplina che si occupava di essa era la psicologia. Siamo agli anni ottanta. Da fenomeno psichico essa diviene nel corso degli anni novanta fenomeno sociale con un culmine nell’attenzione negli anni 2000 a causa di un modello imperante nella moda: La ragazza grissino, sponsorizzato da tutti gli stilisti sulle passerelle. In lieve controtendenza negli ultimi tempi rimane un problema personale e sociale, quindi sento la necessità di affrontarlo ontologicamente ossia nel suo essere essenziale.
Ma che cos’è l’anoressia?
Si presenta come un’eccessiva magrezza che è l’elemento primo e il più evidente ma non si riduce ad esso. Ricordo ancora quest’estate al mare una ragazza, che se fosse stata normale sarebbe stata graziosa. Camminava per la spiaggia come uno scheletro ambulante e bamboleggiandosi come se fosse stata bellissima; in realtà era oscena, nel senso di scandalosa per l’eccessiva esiguità della sua presenza: ossa e pelle che si muovono dentro un bikini racchiudente un seno rasato e due anche ossute e delle rotule ambulanti. Impressionante. Eppure dava l’impressione di ritenersi bella. L’ossessione per la bellezza è sicuramente una delle componenti dell’anoressia che in questo breve saggio verranno considerate. Poteva essere un atteggiamento ostentato ma poteva anche rappresentare l’estrema soddisfazione per aver raggiunto, nella psiche deviata, un risultato apprezzabile: esser sufficientemente magre e non provare nemmeno più il desiderio di nutrirsi di alcunché. Anoressia dunque come privazione del grasso, del cibo, del bisogno fisico di mangiare. Tale privazione nasconde però una frustrazione ben più profonda che è il bisogno di considerazione e di affetto. Basta anche semplicemente il primo per indurre qualcuno a divenire anoressico.
Allora l’anoressia è un male psichico che si riversa sul fisico. Si cerca il perfetto, non lo si trova fuori di sé e allora lo si riversa su di sé. L’anoressico è sempre qualcuno che ha manie di perfezione. Vuole il meglio per se e siccome la vita spesso non lo accontenta lo proietta su di sé, perfezionando il proprio corpo, cercando di raggiungere un ideale di perfezione che si traduce nell’esercizio del dimagrimento cronico. La situazione sfugge al controllo e il corpo induce la mente a non nutrirsi perché non ne manifesta più il bisogno e l’anoressico è leggero. Nel momento del confronto con se davanti allo specchio si vede peggiorare esteriormente (troppo magro) ma erra nel pensare che dimagrendo ancora di più la situazione migliori e la bellezza, magari prima posseduta o cercata, all’improvviso appaia. Ecco il desiderio di perfezione frustrato che mantiene l’anoressico in uno stato di dipendenza totale dal proprio corpo dimagrito.
Questo saggio ha lo scopo di trovare le cause, la natura e gli scopi dell’anoressia dal punto di vista della filosofia. Si intrufolerà anche nelle discipline sorelle: psicologia e sociologia ma solo per introdurre il fenomeno e tener conto di quelle componenti che ne arricchiscono il senso e ne spiegano l’origine e gli scopi.
Cristina Finazzi

Mettere in opera la verità

Mettere in opera la verità
E’ il significato primo del testo heideggeriano : “L’origine dell’opera d’arte”
Ecco il valore dell'arte di Heidegger, mentre vediamo un 'opera d'arte (contadina con gli zoccoli di Van Gogh) oppure leggiamo dei versi (m'illumino d'immenso) di Ungaretti. Cosa comprendiamo? Nel primo caso: il mondo contadino, le sue fatiche, i suoi odori, le sue stanzialità; nel secondo il chiarore dell'infinito, il tema della luce come vero e il vero come immensità della natura umana e non. Non è un mettere in opera la verità questo? Quando Chaplin mette in scena i suoi lavori non fa arte? E non mette in opera la verità? Del lavoro in “Tempi moderni” e del “nazismo” con i suoi lati tragicomici quando si descrive Hitler. Questo mettere in opera la verità è il modo più puro in cui l'essere si rivela a noi al di là della sua cosalità (del suo uso, del suo fine, del suo essere creatura di un qualunque artista). Nell'opera d'arte io vedo "l'ente nel suo essere ossia nella sua verità. Distrutti tutti i retaggi metafisici riguardo alla cosa in sè (dopo Kant) e ridotto l'essere a mera cosa (ciò di cui ci si serve) si è perso il vero significato dell'essere ma esso ci viene dato nell'opera d'arte proprio perchè noi ne contempliamo il reale significato semplicemente osservandola o leggendola (a seconda dei tipi di arte che abbiamo di fronte).
Mettere in opera significa "installare e così soffermare un mondo", sono parole di Heidegger e significano fornire un senso al mondo e renderlo presente a tutti. Se anche il senso dato al mondo è inserito in un contesto, quindi in un tempo e spazio, acquista i caratteri dell'universalità datagli dalla sua presenza statica nel mondo, fissata nell'opera d'arte. Un pezzo di vero che diviene vero per sempre e anche se non è per sempre, è stato fissato e quindi vale. Infatti oramai siamo di fronte ad un essere che non puo' più essere eterno o universale (categorie ontologiche che non valgono più dopo N.) ma se io fisso qc in un tempo, comunque lo fisso e anche se è finito perchè dipende da quel tempo, lo fisso per l'eternità ed è l'unico modo in cui l'essere mi si puo' porre dinnazzi. L'opera d'arte (fra cui anche l'opera comica) "fa insorgere un mondo e lo sofferma in una generosa permanenza". Il mondo che mettiamo in opera è un farsi mondo, non un qc di già dato (metafisica o fisica) ma un evento, un porsi ad essere che implica comunque un io o un noi che lo comprendiamo e senza di noi non avrebbe senso. Mondo è ciò che si fa evento di fronte a noi e che noi scegliamo anche solo comprendendolo, è quindi finito tanto quanto noi e dura finchè noi lo facciamo durare ma puo' essere ripreso via via in maniera diversa e diversamente consapevole (il vigore di un'opera classica che resta nel tempo soggetta a varie e storiche interpretazioni).
Il vero è dato dall’opera d’arte. La verità si ad-stanzia cioè si pone ad essere ed è ciò che viene messo in opera, il vero è l’effettuale ossia ciò che è in effetti. Il modo in cui si pone presuppone un noi che cogliamo il vero e un essere che si pone, che si mette in opera. L’essere rivela la sua essenza ponendosi lì di fronte a noi con nessun altro scopo che non rivelarsi a noi. Noi cogliamo una stagliatura dell’essere che è però più vera di qualsiasi altro essere posto (da altri –società –tecnica) o da noi (pregiudizi, idiosincrasia). Qui accade la verità: noi chiediamo qc all’arte ed essa risponde. La risposta e la domanda sono il vero (da qui partirà l’ermeneutica che porrà l’accento sul vero come rappresentazione dell’interpretare e proprio come domanda e risposta.) E ancora una volta arriviamo all’opera d’arte che mostra come è l’essere nel suo essere bello. Il bello (mi piace, mi procura piacere) rivela a me un senso dell’essere ossia proprio la sua bellezza. Il bello è un vero.
Sapere significa un modo del sapere. Sapere per Heidegger significa aver visto. Cosa? lO STANZIARSI DELLA VERITA' ossia il porsi del vero. Il fare dell'artista non è un agire meccanico come quello dell'artigiano o dell'operaio ma un fare per porre in luce il vero e lasciarlo lì "posto" dinnanzi a noi, alla nostra presa di coscienza su di esso. l'opera d'arte, in tutte le sue forme, rivela e nasconde. Questo pensiero non è originario di H.; già pensatori del 700 come Batteaux e Kant avevano chiarito questo. Il pregio di Heidegger è quello di chiarirlo in chiave ontologica ed esistenziale. Nel rapporto con la cosa e la sua verità noi vediamo un rivelarsi dell'essere che non è tutto l'essere e che puo' lasciare lati oscuri che non siamo in grado di vedere e che magari si rivelano ad altri o proprio non si rivelano. Ciò diverrà fondamentale per l'ermeneutica perchè la domanda che noi poniamo a un testo: cosa vuol dire? Per es. non è necessariamente la stessa che si è posta l'autore o quella che si porranno di fronte ad esso fra 100 anni. Nell'incontro c'è sempre la verità; gia Hegel lo aveva mostrato con la dialettica servo-padrone che rivela la libertà vera e quindi reale del servo. Qui l'incontro è fra l'opera d'arte e chi ne gode o creandola e quindi mettendo in opera la verità o fruendone e quindi godendo di una particolare verità ossia quel manifestarsi dell'essere (ente) che noi siamo in grado di cogliere. Quel rivelarsi dell'essere (ente) a noi è la forma (il porre per fermo). Forma assume un nuovo significato (non è più idea assoluta) ma manifestazione parziale dell'essere che si rivela e si nasconde e quindi è l'evento dell'essere. Accade nel rapporto di comprensione che avviene tra noi e la cosa goduta ossia contemplata che per Heidegger è la forma più alta del godere perchè non si consuma l'ente (Hegel torna - il godere del signore non è reale; quello del servo si perchè mette in opera un alcunchè di indipendente appunto).
La verità viene dal niente?
Per Heidegger ogni definizione dell'essere è una negazione dell'essere stesso (ogni volta che ho provato a definire l'essere (storia della metafisica) l'ho fatto divenire altro: (ente) sostanza, Dio, uomo, io, libertà, superuomo), è quindi impossibile dare un significato all'essere nel senso della sua universalità (morte e negazione della metafisica).
Se pongo in opera la verità nell'arte, essa puo' venire dal ni-ente nel senso che nego l'ente (nella sua superficialità e banalità, servibilità, quotidianità) e si rivela a me nei suoi significati infiniti (di cui io colgo solo qc) e quindi si dis-vela e vela nello stesso tempo. Nego allora il niente (banale, cosalità, superficialità; il "si dice"), infatti Heidegger scrive: "le abitudini di fronte alla cosa sono inessenti (non hanno significato, sono contingenti). Nell'opera " gli zoccoli” di Van Gogh non mi interessano perchè servono ma perchè rivelano un vero.
Perchè la poesia rivela al meglio il vero? Perchè usa il linguaggio laddove il linguaggio contruisce l'essere dandogli senso (parliamo e quindi definiamo l'essere). E' perciò il modo migliore di rivelazione perchè i sensi dell'essere rivelati sono per sè (non servono ad altro se non a comprendere la cosa ); vi è un dis-velamento di senso. la parola secondo Heidegger fa si che l'ente insorga e si estenda in quanto ente". Un progetto, come puo’ essere un’opera d’arte, è il dare il via ad "un getto"; in esso l'ente si rivela e si ritrae (da e nasconde diversi significati d'essere). Quindi in sintesi il "dire" progettante è proporre il dicibile ma mettere al mondo anche l'indicibile (l'opera vela e disvela).
Il limite del pensiero di Heidegger in quest’opera puo’ essere notato nella parzialità del ruolo dell’io che funge da spettatore. Egli fruisce di un senso rivelato dall’opera. Sembra che Heidegger non abbia colto appieno il ruolo doppio dell’uditore e fruitore e dell’essere rivelato che lavora in circolo nel rapporto domanda-risposta e abbia lasciato uno spazio più ampio all’essere che si ad-stanzia. Inoltre, pur comprendendo la validità del linguaggio nel rapporto di rivelazione dell’essere, lascia un ampio spazio all’arte come linguaggio puro e che quindi rivela l’essere nel modo più essenziale dimenticando che ogni volta che nella storia l’essere si rivela (anche con quelle categorie metafisiche che lui stesso nega) una parte di essere si è rivelato e noi anche nel linguaggio comune non prescindiamo da quelle stesse categorie metafisiche (io-noi-essere). Tutto ciò verrà ripreso con maggiore chiarezza dall’ermeneutica e dai suoi principali esponenti come Gadamer.